Partire dalla storia per capire l’importanza del nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza e la corretta risposta assicurativa.
“Se lui paga il debito non vorrete la sua carne. A che vi serve?
Come esca per i pesci: se non servirà ad altro, nutrirà la mia vendetta”
Gli storici del nostro settore concordano nello stabilire che la prima polizza di cui si abbia conoscenza – strutturata in forma moderna – venne sottoscritta a Genova nel 1347.
Siamo però ragionevolmente certi che i vostri antenati broker non sarebbero comunque mai riusciti a trovare, anche negli anni seguenti, un assicuratore disponibile a sottoscrivere una polizza D&O.
Paradossi o, meglio, sciocchezze a parte, non avremmo potuto che essere d’accordo con gli underwriter medievali, se si considera che, allora, tutti i falliti erano ritenuti responsabili – senza eccezione alcuna – del danno causato ai creditori. Una sorta di responsabilità oggettiva, diremmo oggi, anche se qualche accorto liquidatore sinistri avrebbe certamente provato a eccepire il dolo sulla base dell’incontestabile principio che veniva allora applicato: decoctus, ergo fraudator. Fallito quindi truffatore.
Sorte ancora peggiore era riservata ai banchieri inadempienti. Quando questi non erano più in grado di rispettare gli impegni presi verso coloro che avevano dato loro fiducia, offendendo la garanzia – anche morale – che i creditori avevano sul patrimonio del debitore, venivano pubblicamente disonorati attraverso la concreta distruzione, davanti a tutti, dei loro strumenti di lavoro, come i forzieri e soprattutto i banchi sui quali venivano effettuate le transazioni. Azione questa che è all’origine della parola bancarotta.
Non sono aberrazioni e assoluti relegati in un passato lontanissimo ma il punto di partenza di un tuttora irrisolto approccio a una delle fattualità più inevitabili e controverse del vivere comune e dell’organizzazione sociale ed economica: l’insolvenza. Ancora oggi la reazione di fronte alle obbligazioni non onorate è discussa e discutibile sotto molti punti di vista: giuridico, etico, lessicale, operativo.
Nell’Inghilterra, fino al 1869, si poteva andare in carcere per debiti (ricordate i romanzi e la stessa vita di Dickens?) mentre in molti paesi, anche oggi, è possibile dichiarare il fallimento individuale. Norma che può apparire barbara e che, invece, nasce per tutelare la persona.
Spesso sono le stesse parole, la loro etimologia, a restituire il senso di contraddizioni non risolte. Basti pensare che negli Stati Uniti viene ancora usato il termine bankruptcy (con l’implicita e descritta connotazione di responsabilità) anche per definire quello che nei paesi di ceppo neo-latino, viene chiamato fallimento, termine derivante dal verbo fallere, che non significa sbagliare ma ingannare, violare, sfuggire.
Fallire, fallito, fallimento sono vocaboli che da molto tempo hanno superato i confini della terminologia giuridica per invadere gli ambiti della psicologia, della sociologia e quelli dell’eloquio popolare. Evoluzioni o involuzioni del linguaggio a parte, da sempre un obiettivo primario per i legislatori è trovare una norma o, meglio, un corpo di norme equilibrato che permetta di salvaguardare sia i diritti dei creditori che quelli del debitore, di distinguere gli effetti della norma rispetto a un comportamento doloso piuttosto che colposo o, peggio, senza responsabilità alcuna.
Ci troviamo di fronte a un vero e proprio rebus “politico”, perché così come una legge estremamente punitiva per i debitori rischierebbe di inibire la libera iniziativa, una deresponsabilizzazione spinta sarebbe lesiva dei giusti diritti dei creditori. Il rapporto di causalità tra azioni e conseguenze non è infatti così certo e necessario in un sistema commerciale complesso.
In questo contesto dobbiamo collocare il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – la legge quadro approvata nel 2019 (D.Lgs. n. 14/2019) ma entrata in vigore solo l’anno scorso – che ha integralmente sostituito la Legge Fallimentare del 1942, una delle più antiche norme di diritto commerciale del nostro Paese, il cui disposto definisce e regola le modalità con le quali riconoscere e gestire un’eventuale “crisi d’impresa” (la parola “fallimento” non viene più utilizzata).
Il D.Lgs. n. 83/2022 – che aveva appunto confermato il 15 luglio 2022 come momento di definitiva entrata in vigore delle norme (D.Lgs. n. 14/2019) – ha inoltre attratto all’interno del Codice le disposizioni sulla composizione negoziata della crisi. Lo slittamento di entrata in vigore – dovuto sostanzialmente ai variegati impatti del COVID – ha consentito peraltro di allineare le disposizioni anche alla Direttiva UE 1023 del 2019.
Il CCII (abituiamoci a questo acronimo) – che ha portato anche alla modifica di alcuni articoli del Codice Civile – ha, come detto, totalmente sostituito la Legge Fallimentare del ’42, prevedendo nuove regole di gestione dell’impresa.
Nella relazione illustrativa al decreto attuativo viene infatti, sottolineato con chiarezza l’obiettivo del legislatore: “Consentire alle imprese sane, in difficoltà finanziaria, di ristrutturarsi in una fase precoce, per evitare l’insolvenza e proseguire l’attività”.
L’ambizioso obiettivo è quello di “costringere” per legge le aziende a dotarsi di sistemi di analisi e di procedure atte a prevedere, per quanto possibile, evoluzioni pericolose o, meglio, involuzioni future. Obblighi che dovrebbero concedere migliori possibilità di salvaguardare la continuità aziendale ed evitare conseguenti insolvenze e rischi per i creditori, interni ed esterni.
Se i manager o gli imprenditori non sono in grado di superare inveterati comportamenti, totalmente anacronistici, tipici della nostra economia, in gran parte ancora micro e familiare, che un giornalista economico ha sintetizzato, con arguzia, in “le letture del consuntivo” allora è la legge a imporre gli strumenti di previsione e programmazione, i tool di lettura prospettica, il budget, i piani industriali.
Lo Stato ha il compito supremo di tutelare i propri cittadini e ben venga dunque un atteggiamento forse “paternalistico” (che impone per legge sistemi di analisi più adeguati), se effettivamente facilita la continuità e limita i rischi di crisi con tutte le conseguenze negative che questa porta.
Adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili dovrebbero permettere di rilevare tempestivamente le possibili crisi evidenziando squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario e l’eventuale non sostenibilità dei debiti. La pianificazione, l’analisi del flusso di liquidità, l’attenzione alla capitalizzazione e al fabbisogno devono essere integrati nelle dinamiche quotidiane della gestione d’impresa.
Sia chiaro, sono diktat precisi, non troviamo indicazioni “teoriche” o accademiche. Le norme scendono a indicare esattamente cosa fare e come fare, evidenziando ratio, test, parametri, form e interventi per facilitare l’operato dell’imprenditore e dei suoi manager. Tutto al fine d’intervenire con i correttivi più efficaci, in modo tempestivo, prima che la crisi diventi irreversibile.
Ovviamente non stiamo parlando di rimedi magici e un’attenta lettura, per quanto predittiva, non può evitare inevitabili – anche se speriamo più rarefatti – stati di sofferenza.
In questi casi di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono possibile, anzi probabile, l’insolvenza – che vengono definiti “pre-crisi” nella legge – l’impresa potrà ricorrere alla composizione negoziata e riservata della crisi attraverso l’aiuto di un esperto esterno (ovviamente quando risulti ragionevolmente perseguibile il risanamento) in grado di confrontarsi con tutti gli stakeholder ivi compresi creditori, debitori, banche.
Ovviamente stiamo proponendo una lettura estremamente semplificata di una legge complessa e rivoluzionaria, anche perché – dal punto di vista assicurativo, e più specificamente nell’ottica della copertura D&O – è più interessante evidenziare cosa sia richiesto alle figure apicali delle aziende.
Se partiamo dall’assunto che le prescrizioni del Codice siano corrette ed efficaci dovremmo essere d’accordo che porta vantaggi a tutte le parti: agli imprenditori – che possono guardare con maggiore serenità e lungimiranza al futuro -, ai possibili creditori – che rischiano meno in termini di sofferenza del credito -, per la Comunità che, nel suo insieme, a livello sociologico, vivrebbe meno conflitti. Cambia però completamente, crescendo in maniera significativa, la responsabilità di coloro che devono applicare le nuove norme e strutturare la nuova organizzazione aziendale.
Sappiamo che negli ultimi decenni il legislatore aveva già inasprito l’attesa giuridica rispetto al management: dal comportamento da «buon padre di famiglia» si era già passati alla diligenza «secondo la natura dell’incarico e la specificità delle competenze». La responsabilità in capo agli amministratori risulta oggi ulteriormente ampliata o, meglio, più facilmente riscontrabile e dimostrabile da eventuali terzi.
Alle figure apicali spetta il compito di ottemperare agli obblighi di istituire un adeguato assetto «organizzativo», «contabile» e «amministrativo». Le indicazioni delle norme sono precise e in caso di situazioni latrici di eventuali danni a terzi – a prescindere che le stesse siano state effettivamente provocate da vizi nell’organizzazione di cui abbiamo parlato – la possibilità di dimostrare eventuali responsabilità sarà più semplice.
Gli squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, l’assenza di un’accorta e preventiva lettura di sostenibilità dei debiti, errori conseguenti alla mancata rilevazione dei segnali di allarme previsti verranno agevolmente attribuiti ai manager, nel caso di vizi d’implementazione degli strumenti e delle procedure previste.
La copertura prevista dalle polizze D&O è uno tra i più validi strumenti a supporto degli amministratori per tutelarli dal rischio di un’azione nei loro confronti. Le figure apicali – quelle che devono applicare le direttive del CCII – devono agire in “maniera informata” ma ovviamente sono chiamate anche a scelte di natura meramente discrezionale.
Stiamo assistendo a una trasformazione radicale dello spettro di responsabilità – per tutte le ragioni che abbiamo descritto – ed è assolutamente necessario che il broker sappia scegliere e proporre coperture che recepiscano questo passaggio epocale e non mantengano limitazioni o definizioni che possano portare a dubbi in fase di liquidazione di sinistri o magari a vedere la polizza portata automaticamente in run-off a causa di una lettura superficiale della norma.
Non tutte le polizze sul mercato sono adeguate: molte Compagnie stanno restando “alla finestra” nell’attesa di capire se e come modificare le condizioni ma i manager non possono aspettare.
Quello che, come agenzia di sottoscrizione, proponiamo, sono coperture che rispettino il concetto che sta alla base della norma e contestualmente supportare il management e la proprietà nella risoluzione dello stato di pre-crisi. Proprio per questo motivo l’emersione – per esempio – di uno stato di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario e il conseguente ricorso allo strumento della composizione negoziata della crisi non porterebbero automaticamente a sostanziali limitazioni delle garanzie di polizza (il già citato run-off) ma alla – corretta – necessità di procedere alle necessarie valutazioni anche in termini di modifica dei termini di rischio.
Anche Shylock si sentirà soddisfatto di fronte a un’adeguata polizza D&O e probabilmente rinuncerà alla libbra di carne del vostro Cliente!
Articolo a cura di Antonio Invernici
Direttore Generale di Blue Underwriting